Confessioni di una vittima dello shopping di Radhika Jha

Il titolo potrebbe far erroneamente pensare ad un chick lit sulla scia della Kinsella: niente di più ingannevole! Qui non c’è affatto leggerezza, ma un racconto livido, scuro e sofferto da parte della sua stessa protagonista che viviseziona la propria parabola vitale senza alcuna indulgenza né per se stessa e, di conseguenza, neanche per gli altri.

L’intera vicenda scorre come fosse un’autobiografia, ambientata nel Giappone degli anni ’80 del secolo scorso sino ad oggi. Il disagio che mina costantemente l’esistenza di Kayo ha origini profonde, partendo dalla precoce perdita del padre e dal pressoché inesistente rapporto con la madre, riverberandosi nel suo percepirsi mediocre, non “abbastanza” per il lavoro, le persone che frequenta e persino per suo marito. Successivamente alla prima gravidanza, la donna cade in una turba psicologica in cui per lei essere, esistere, equivalgono all’avere, al comprare: solo attraverso l’acquisto di certi oggetti riesce ad arrivare ad un’immagine di sé che la soddisfi. Inizia patologicamente a dividere l’umanità attraverso categorie di possesso, in cui più salirà di livello, maggior autostima sarà autorizzata ad avere, sino a considerarsi un’eletta, la super donna che aspira di diventare per essere degna del contesto sociale di cui è parte. In realtà Kayo non si vede mai “a fuoco”: col marito e i figli si vergogna per i denari scialacquati, col gruppo d’amiche benestanti si sente fuori luogo, con Tomoko, amica per cui sviluppa una sorta di ossessione eleggendola a modello assoluto, troppo brutta ed insignificante per starle vicino…tutto questo perché non è mai riuscita ad avere una sana visione di sè slegata dalla preoccupazione di come apparire all’altrui sguardo e giudizio.

Un libro disturbato e disturbante, tormentato dalla continua altalena emotiva della protagonista, un personaggio coniugato violentemente al singolare, totalmente estraneo ad empatia e al più elementare affetto, che quando usa parole gentili per la sua famiglia, lo fa per solo senso del dovere. Un viaggio esasperato nel nero d’anima d’una donna fredda, eppure capace di sorprendere, talvolta, per purezza e limpidezza di pensiero. La scrittura ha uno stile rapido, sicuro, confidenziale nel tono quanto spietato nell’analisi chirurgica, meccanica e mai emotiva della propria vicenda; tutto è intonato al gelo e all’oscurità in cui il lettore è avvolto ed è funzionale a trascinarlo a fondo con Kayo. L’unico lampo d’azzurro sono le descrizioni d’ambienti naturali, particolarmente riuscite perché vive, poetiche senza ridondanza, composte in poche battute e che restano appiccicate addosso a lungo. Una lettura tagliente che brucia sulla pelle come una ferita non rimarginata; per stomaci, se non forti, quanto meno preparati.

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