Heather, più di tutto di Matthew Weiner

Un libro estremamente cupo, buio, una vicenda in cui il protagonista assoluto non è un personaggio, bensì l’ossessione dilagante, un virus che abita le menti e le vite dei suoi protagonisti. Una famiglia borghese da una parte e dall’altra Bobby, ragazzo immerso in un profondo disagio sociale: due universi opposti destinati ad entrare in collisione attraverso la giovane Heather, per poi scoprirsi più simili, anzi disperatamente uguali, nel profondo nero dell’anima. Weiner usa uno stile volutamente oggettivo, distaccato, planando sopra le loro esistenze come se stesse stendendo un resoconto epurato dalla componente emotiva, uno stile gelido totalmente privo di empatia e senso morale che risulta crudissimo, potente proprio grazie alla sua stessa sottrazione e nettamente disturbante per il lettore. Ogni azione o pensiero muove da un endemico senso di inadeguatezza, tutto è una continua rincorsa ad una legittimazione sociale e personale, una spinta sfibrante a raggiungere uno status che permetta di giudicare la propria esistenza come riuscita solo se approdata ad un paragone che regga con quella altrui, una lotta continua per scrollarsi di dosso l’onnipresente ombra della mediocrità. Mai c’è amore in questo indaffararsi, solo una scelta fredda, meramente funzionale, un compito da assolvere per portare a termine un copione prestabilito ed impersonale. Gli unici sentimenti presenti nel libro sono attacamenti distorti e deformi, inadeguati ed assurdi, fobici e tossici, totalizzanti schiavitù di cui i personaggi non colgono affatto la natura insana ma che, al contrario, continuano ad alimentare nell’interagire fra loro e nella disgraziata percezione di se stessi. Ne esce fuori un corrosivo horror della condizione umana teso fino ad estenuare, un affresco metallico che teorizza la bruttura dello spirito come certa, cronica e socialmente trasversale; una lettura che lascia pieni di lividi, attoniti e orfani di speranza.

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