“Tutto ciò che poteva rompersi” è un romanzo a quadri: composto da racconti, collegati fra loro per personaggi, rimandi e piani temporali.
Tutta l’umanità che abita e compone questo romanzo è alla perenne ricerca di se stessa, del suo (citando Battiato) centro di gravità permanente. E le rotture, evocate dal titolo dell’opera, sono passaggi inevitabili e necessari per provare a giungere allo scopo. Di più: nel loro succedersi, racchiudono gran parte dell’essenza della vita stessa, perchè cammino di evoluzione, sebbene all’insegna della provvisorietà, così tipica dei nostri tempi.
Il tema comune è il vissuto più intimo, a livello singolo e relazionale, soprattutto di giovani uomini e donne fra i venti e i trent’anni. Decennio in cui si entra nella vita degli adulti e le scelte trasformano le prospettive in realtà. Presente anche il confronto con padri e madri, con i relativi, evidenti e tipici disallineamenti di vedute. Non mancano, però, parti dedicate a personaggi più maturi (una sorta di ribaltamento di visione, di sguardo da dietro lo specchio rispetto ai precedenti) e anche qui si avverte come i nodi di base siano gli stessi dei figli o nipoti, ma filtrati diversamente dall’esperienza.
David Valentini crea storie in cui fini ed inizi si mischiano e succedono continuamente in un impasto riuscito, vitale, estremamente variegato.
La scrittura è materia viva e bruciante, perfettamente accordata al ritmo del vivere dei personaggi. Crea e nutre esistenze vorticose, in continuo, dinamico, mutamento. Fatti, pensieri, turbamenti, inciampi, decisioni, progressi e regressioni: tutto è reso in trascinante sali scendi.
Il punto di vista cambia più volte nei racconti: dalla prima persona il cui genere ed età del soggetto sono alquanto diversi, al narratore onnisciente. Niente è stonato, ogni voce credibile e ben dosata, con una personalità specifica e delineata con caratteri fermi, riconoscibili.
Fra le varie parti del libro, segnalo come rappresentative di quanto scritto in questa recensione: “Il suo finale di stagione” (dal ritmo narrativo incendiario), “In terre straniere” (molto profondo umanamente) e “Bruciare ogni cosa” (evoluzione esistenziale di una ragazza che racconta le sue scelte estreme fino ad arrivare a riconoscere la sua relazione come tossica).
“Tutto ciò che poteva rompersi” merita la lettura per tecnica narrativa fatta di incastri e abilità nel rendere il diverso, mutevole tratto umano e per il tratto contemporaneo e dinamico che lo anima.
Scheda: “Tutto ciò che poteva rompersi” di David Valentini, Accento Edizioni, ottobre 2022, pagine 195, euro 16
I primi 3 concerti della mia vita sono stati tutti e 3 proprio di Franco Battiato. Gli piaceva farli in mezzo ai prati, e questo talvolta causava degli inconvenienti non da poco.
Ad esempio, al primo dei 3 concerti aveva piovuto a dirotto dalla mattina fino a un’ora prima dell’inizio, e quindi per raggiungere il mio posto a sedere dovetti avanzare nel fango che mi arrivava fino alle caviglie.
Tuttavia, fare i concerti in un contesto agreste ha anche dei lati positivi: ad esempio, al secondo e al terzo concerto eravamo in piena Primavera, e quindi l’aria era carica di tutti gli odori naturali della terra, sembrava di essere nel giardino dell’Eden.
Al primo concerto Battiato fece un’entrata in scena spettacolare: arrivò in macchina, fece fermare l’autista a poca distanza dagli ultimi posti a sedere e poi percorse a piedi il tragitto da lì al palco. Anche lui si sarà riempito le scarpe di fango, ora che ci penso.
Il pubblico fu molto disciplinato: invece di sporgersi in avanti per toccarlo, si alzò in piedi e lo applaudì a scena aperta. Lo facemmo perché avevamo capito il senso profondo di quella scelta: Battiato voleva esprimere vicinanza al suo pubblico non con un sorriso finto, non con un ringraziamento stereotipato, ma con il gesto simbolico di camminare in mezzo a noi. Ci commosse senza bisogno di dire una parola.
Il terzo concerto fu il più bello in assoluto, perché lui nell’ultima mezz’ora ci chiamò tutti sotto il palco e fece canzoni a richiesta finché non gli andò via la voce.
Quella sera stessa capii che non l’avrei più visto in concerto, perché era meglio chiudere così, avevo già toccato l’apice.
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